Relazione questione meridionale, RdC

Lo sfondo da cui dobbiamo partire, per analizzare il rapporto tra questione meridionale e questione europea, è quello proprio della tradizione politica di ispirazione marxista imperniato sul concetto di sviluppo economico capitalistico fondato sulla crisi (e sulle soluzioni imperialistiche della crisi) e non sull’equilibrio. All’interno di questo sfondo si articola il concetto di sottosviluppo d’intere aree geoeconomiche più o meno correlato allo sviluppo capitalistico stesso. Questo sottosviluppo può essere un rapporto tra diversi modi di produzione, tra diverse fasi di uno stesso modo di produzione (in questo caso quello capitalistico) ma anche tra diversi livelli all’interno di una stessa fase.

L’imperialismo, esportando capitali nel tentativo di evitare le crisi di sovrapproduzione e di trovare al tempo stesso una composizione organica del capitale ad un tasso di profitto più alto, riconfigura il rapporto tra le diverse parti del mondo.

La relazione che si viene a instaurare tra regioni con diverso grado di sviluppo è quella sintetizzata dal termine di sviluppo ineguale, nel quale le regioni meno sviluppate assicurano a quelle egemoniche prima risorse naturali a basso prezzo (per garantire almeno per un certo periodo un compromesso tra capitale e lavoro nei punti alti dello sviluppo ed esorcizzare il rischio di una rivoluzione laddove il capitalismo sia più sviluppato) e poi forza lavoro a basso costo (e questo progressivamente porta a rompere il compromesso di cui sopra ed a scardinare le avanguardie del proletariato).

La contesa imperialistica (sono più potenze imperialistiche a contendersi le regioni verso cui esportare capitali) accelera la concorrenza ed il conflitto tra capitali e promuove la concentrazione e la centralizzazione dei capitali stessi. Questo processo, poiché la geografia politica è funzione della distribuzione geografica del capitale, altera questa geografia politica portando regioni diverse ad integrarsi e regioni unitarie a dividersi internamente. Ciò è avvenuto ad es. quando, con la fine dell’Urss, da un lato si è accelerata l’unificazione tedesca e quella europea, dall’altro si sono disgregate (oltre l’Urss) la federazione jugoslava, la Cecoslovacchia e si sono rafforzate spinte federaliste (se non secessioniste) in Italia, Spagna e Regno Unito.

Il processo di unificazione, a causa delle dinamiche capitaliste, è un processo fragile e perciò stesso violento: l’integrazione monetaria ad es., impedendo quegli aggiustamenti del cambio che permettono alle regioni più deboli di alleviare gli effetti della competizione intercapitalistica, e senza essere compensata da altri processi contemporanei d’integrazione (allineamento dei diversi tassi di inflazione, politiche fiscali redistributive, mobilità del lavoro pari a quella del capitale), non fa che divaricare le differenze già esistenti tra regioni che si vanno unificando (secondo processi di causazione cumulativa descritti pure in ambito borghese da Myrdal e da applicazioni del moltiplicatore di Keynes) e creare una gerarchia di sfruttamento tra di esse.

Un processo del genere si è realizzato in Italia una prima volta con l’unificazione generando quello che più o meno propriamente viene chiamato colonialismo interno: lo stesso Gramsci scriveva che la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie

di sfruttamento e che tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all’Italia del Nord che, a sua volta, funziona come un immensa città.

Tuttavia una estremizzazione di questa prospettiva non ci aiuta a comprendere la complessità del fenomeno così come si è storicamente sviluppato: l’allegata scheda del testo di Luciano Ferrari Bravo su Stato e sottosviluppo evidenzia come questo problema sia stato affrontato dallo Stato italiano verso la metà del secolo scorso nei termini di un tentativo di pianificazione all’interno del modo di produzione capitalistico. A questa strategia, del tutto diversa da quella odierna, i soggetti antagonisti hanno dovuto adeguare l’analisi sviluppando un ragionamento che a noi potrebbe suonare poco familiare, a dimostrazione del fatto che la reazione al momento vincente del Capitale (provando a semplificare in senso deteriore i rapporti tra Stato e mercato) ha privato la stessa critica di strumenti concettuali e di livelli di approfondimento dell’analisi. Nell’analisi di Bravo la pianificazione statale (che ad un certo punto la Sinistra politica e sociale ha dovuto difendere) era funzionale alla complementarità spesso denunciata tra sviluppo e sottosviluppo.

I processi successivi caratterizzati dalla nascita di distretti industriali anche a Sud e a modelli di sviluppo dal basso nel quale i privati intervengono al posto dello Stato e dove si parla di programmazione negoziata e di concertazione non fanno che promuovere nuove gabbie salariali senza però attivare processi di perequazione ed anzi privando le regioni più deboli di qualsiasi protezione nei confronti delle crisi che si sarebbero succedute.

Sintetizzando è stato notato da Luciano Vasapollo che i vari periodi dello sviluppo economico italiano hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale con aumento della disoccupazione e della marginalità sociale che ha colpito in particolar modo le aree più deboli della penisola (innanzitutto il Meridione). Il modello di sviluppo neoliberista, già prima della crisi, ha poi trasformato il Meridione nel laboratorio dell’economia marginale e sommersa, del lavoro nero e sottopagato funzionale al più generale processo di globalizzazione dell’economia.

Se comunque tale processo in passato era attenuato dalla mobilità del fattore lavoro da sud a nord e dalla redistribuzione fiscale da nord a sud, il processo di unificazione europea ha lacerato questo processo di parziale redistribuzione ed ha riformato la Costituzione nel senso del federalismo fiscale. Tutto ciò con l’effetto aggravante della crisi economica ha di nuovo generato processi caotici di divaricazione tra nord e sud Italia.

Questo processo però si è realizzato anche a livello europeo. Infatti essendosi l’UE formata su basi competitive tutto è stato affidato ai meccanismi di mercato e l’adozione della moneta unica più l’impossibilità di usare le tradizionali leve della politica economica da parte dei governi dei paesi membri hanno favorito la divergenza economica tra questi ultimi, accentuando i divari economici già sussistenti prima della nascita stessa dell’euro. Si riproduce su scala continentale il tradizionale dualismo tra Nord e Sud dell’Italia: emerge una nuova questione meridionale che travalica i confini italiani e incide sui destini dell’intera Europa.

Tra paesi centrali e paesi periferici all’interno del processo di unificazione europea si riproduce una sorta di ciclo di Frenkel (una variante postkeynesiana delle dinamiche imperialiste e di sviluppo ineguale che culminano con delle crisi finanziarie disciplinanti) con trasferimenti di capitali da regioni più ricche e regioni più povere che tengono queste ultime legate al cappio del debito e ne condizionano le politiche economiche, approfittando delle bolle finanziarie e immobiliari derivanti da tali trasferimenti, disarticolando il mercato e le forze del lavoro, imponendo processi di austerity e più complessivamente neoliberisti.

Questo processo si collega, secondo Emiliano Brancaccio, al concetto marxiano di centralizzazione dei capitali per il quale accanto alla contrapposizione competitiva tra capitali e come effetto di quest’ultima vi è un processo di concentrazione di capitali già formati mediante liquidazioni, acquisizioni, fusioni. Tale processo può essere stimolato dalle autorità di politica economica le quali fissando condizioni di solvibilità più restrittive per i capitali in conflitto aggravano la posizione dei capitali più deboli e accelerano il processo stesso di centralizzazione. Si sono così create le condizioni per una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dell’Europa periferica e i capitali più forti dell’Europa nord-continentale.

A questa resa dei conti tra capitali l’architettura politica europea sacrifica tutto il resto della società, riducendo gli spazi democratici, attaccando lo Stato sociale e le norme regolanti il mercato del lavoro e mettendo i lavoratori europei in diretta competizione tra loro.

Ovviamente (come in ogni dinamica sistemica) la questione meridionale su scala estesa (europea) retroagisce sulla questione del Meridione d’Italia e l’ultimo rapporto Svimez fotografa l’andamento di quest’ultimo processo. Infatti, ad oggi si presentano due grandi emergenze, tra loro strettamente collegate, il crollo occupazionale e la desertificazione industriale.

Mentre il centro nord dopo aver partecipato ad una ripresina nel 2010-2011 si avvia verso una lenta e fragile inversione di trend, il sud vede una recessione senza tregua: diminuzione di investimenti, dello stock di capitale, dell’occupazione, dei redditi, della domanda interna con un progressivo avvitamento a cascata. La conseguenza ultima è una crisi demografica per cui entro il prossimo cinquantennio il Mezzogiorno perderà più di un quinto della popolazione. il divario di sviluppo tra Nord e Sud del paese ha ripreso ad allargarsi tornando ai livelli del 2003, con prospettive future di ulteriore allargamento, viste le previsioni comparate dell’andamento del Pil.

Il prolungarsi della crisi economica rende più estesi e profondi i fenomeni di desertificazione industriale, fa assumere alla caduta del prodotto una intensità e una persistenza che prescindono dal ciclo europeo (a cui invece il centro nord sembra più allineato) e fa temere che l’industria del Sud non riesca successivamente ad agganciare il treno di un’eventuale ripresa continentale. Osservando gli andamenti del valore aggiunto dell’industria nei diversi aggregati europei emergono chiaramente le difficoltà specifiche del Mezzogiorno non solo nel recuperare il ritardo strutturale nei confronti delle regioni del centro nord, ma più in generale nel competere con le altre regioni europee meno avanzate ed in particolare con quelle dell’Europa dell’Est non ancora aderenti all’euro che hanno un più basso costo del lavoro ma anche una maggiore libertà nell’usare la leva fiscale e monetaria (proprio grazie al fatto che non aderiscono ancora all’euro).

I divari strutturali tra economie nazionali, a seguito delle politiche di svalutazione reale si sono inaspriti determinando una situazione di asimmetrie sistematiche tra centro e periferia. L’Unione resta strutturalmente votata a tale divergenza, si sottovalutano i costi sociali associati alle politiche di moderazione salariale associate a quelle di svalutazione reale e si affida la ripresa ai tempi lunghi, costellati da lacrime e sangue, del dispiegarsi degli effetti delle riforme strutturali. L’effetto è che l’economia italiana che ha i suoi competitors nelle economie maggiori si trova al proprio interno un Mezzogiorno che compete invece con le aree marginali dell’Unione ed il risultato complessivo è una economia all’intersezione tra centro e periferia con il rischio di scivolare unitariamente ai margini dell’Unione.

Proprio la natura sia interna che esterna all’Italia di fenomeni di polarizzazione e di ineguale sviluppo economico rende più problematica la scelta per il proletariato e per i partiti di ispirazione comunista: da un lato uno sganciamento nazionale dall’euro e dall’imperialismo europeo ci porterebbe ad inseguire le borghesie nazionali che si difendono dai capitali stranieri e dall’altro l’unione della lotta per questo sganciamento con regioni più o meno sviluppate interne ai diversi Piigs porterebbe ad altre contraddizioni come quella per cui i comunisti catalani che guardano alla secessione spagnola come un preludio allo sganciamento dall’Europa mentre gli altri partiti secessionisti della regione vedono forse quest’ultima più come un miglior viatico all’integrazione europea. Crediamo a questo proposito che il criterio dell’opzione da privilegiare sia quella che assicuri maggiori prospettive di unificazione del proletariato ora disperso all’interno di diversi Stati, diverse religioni, diverse etnie. Questo presuppone un non breve lavoro di preparazione.

In questa Europa è comunque impossibile ogni riforma e chiunque a sinistra sostenga ancora il modello dell’altra Europa tende solo a differire nei fatti una ripresa del protagonismo delle classi subalterne. Perciò, se da un lato, a livello locale, noi ci battiamo per un reddito minimo che abbia funzioni redistributive ed anticicliche (oltre ad essere associato ad una lotta più generale per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario), al tempo stesso pensiamo ad una rete solidale dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e dunque ad una coalizione internazionalista che sia alternativa al’Europa del grande capitale finanziario. Questo processo passa per una fuoriuscita dalla zona euro che non sia solo angustamente nazionalistica, ma che sia progettata ed effettuata di concerto da tutti i paesi PIIGS in modo da essere qualificata in termini di classe.