di Sergio Cararo*
La giornata di discussione organizzata da Eurostop su “Rottura dell’Unione Europea e sovranità economica” più che un contributo alla campagna elettorale in corso è un confronto su cosa fare dopo le elezioni.
Su questi temi è stata raggiunta una sintesi nel programma di Potere al Popolo che non soddisfa tutti ma che al momento è stata l’unica sintesi possibile. Come tale quella raggiunta sarà la posizione comune nelle prossime settimane e ce la faremo bastare in nome di un percorso unitario.
Riteniamo che il vero problema non sia la condivisione di questa o quella posizione sull’Unione Europa ma il rapporto tra le argomentazioni e la realtà. E di solito la realtà è assai più convincente delle posizioni di ognuno.
Sappiamo tutti che subito dopo le elezioni ci sarà l’ipoteca della Commissione Europea sulle scelte economiche del nostro paese. Una volta finita la tregua elettorale sulle misure contenute nella legge di stabilità, chi governerà – prevedibilmente un governo di unità nazionale come in Germania e in Spagna – dovrà tenere conto ancora una volta dei diktat di Bruxelles. Inoltre incombe il Fiscal Compact, convertito in direttiva europea, che dovrà essere ratificato dal Parlamento. Infine, ma non certo per importanza, ci sono le nuove regole che il direttorio franco-tedesco intende imporre in materia di unione fiscale, unione bancaria e quadro istituzionale per attuarle.
Dunque con che cosa stiamo facendo i conti? Per farci capire, e spesso per capirci tra noi, ci limitiamo a parlare e denunciare i Trattati Europei, ma non del processo che i trattati hanno certificato e imposto in questi venticinque anni.
Quali erano gli obiettivi del processo ratificato dai trattati europei?
- La concentrazione della ricchezza, delle tecnologie e del comando capitalistico a livello europeo. E’ stato un vero e proprio stress test non solo sulle classi popolari ma anche sulle borghesie dei paesi aderenti. Un processo teso a creare dei monopoli europei che hanno sgretolato tutto il resto. E’ sufficiente verificare quanto banche c’erano nel 1991 e quanto ce ne sono adesso. O quante compagnie aeree, industrie ad alta tecnologia o società nelle reti strategiche nell’energia e telecomunicazioni prima del 1992 e quanto ce ne sono oggi. Possiamo verificare concretamente come privatizzazioni, fusioni, chiusure di aziende e unificazione monetaria, abbiano ridisegnato completamente la mappa dell’economia in Europa. Si è venuta a costituire una borghesia europea piuttosto integrata che coincide in gran parte con i i grandi gruppi industriali e finanziari tedeschi, francesi, olandesi ma anche italiani, spagnoli, finlandesi.
- La gerarchizzazione decisionale a livello europeo ha prodotto una espropriazione della possibilità di decidere a livello degli Stati nazionali aderenti all’Unione Europea e all’Eurozona. Ha prodotto un “pilota automatico” in grado di gestire i vari paesi anche in caso di fragilità o instabilità degli esecutivi nazionali (dal Belgio alla Spagna senza governo per mesi e mesi, alla Germania che ha impiegato più di quattro mesi per insediare il nuovo governo). Ha prodotto un attacco esplicito ai principi costituzionali non compatibili con questa gerarchizzazione decisionale. Ha prodotto un sistematico smantellamento dei sistemi di welfare per mettere la spesa pubblica ad esclusiva disposizione delle priorità della borghesia; è il caso delle banche ma anche del boom delle spese militari a livello europeo o della valorizzazione degli interessi privati dentro l’uso della spesa pubblica.
- Il comando totale sui lavoratori ha spazzato via quella che era la società dei due/terzi che era un po’ la variante socialdemocratica del modello liberista. In quel modello borghesia e classi medie erano alleate contro la classe operaia, oggi le stesse classi medie sono state stritolate dentro un processo di polarizzazione sociale feroce. In Italia la disuguaglianza sociale è tornata ai livelli del 1881. Lo stress test sulle classi medie è stato pesante ma non è ancora finito. L’abbassamento dei salari è stato perseguito sistematicamente dal 1992 e vede oggi un monte salari spalmato su una platea di lavoratori più ampia ma anche più povera. Viene pesantemente strattonato anche in Germania e Francia il modello di aristocrazia salariale fondato sul surplus, una spinta micidiale in tal senso viene dalla crescente automazione della produzione.
La necessità e la credibilità della rottura dell’Unione Europea
Questa è obiettivamente la situazione nell’Unione Europea e nell’Eurozona.
Noi agiamo per costruire un sistema sociale alternativo a quello esistente, un sistema che rivendica ad esempio la piena occupazione, la riduzione dell’orario di lavoro, la sanità e l’istruzione pubblica e gratuita, pensioni dignitose, insomma un sistema produttivo corrispondente alle esigenze e alle possibilità di un paese come il nostro e non a quello della divisione europea del lavoro che penalizza fortemente i paesi indebitati e quelli euromediterranei. Ma potremmo realizzare questi obiettivi stando dentro i vincoli di questa gabbia edificata con l’Unione Europea e l‘Eurozona? Sappiamo tutti che non è possibile.
Senza avere in mani pubbliche la Banca d’Italia e almeno una parte del sistema bancario, senza avere in mani pubbliche le aziende che gestiscono le reti dei servizi strategici (trasporti, energia, telecomunicazioni) o le industrie utili al sistema industriale (vedi Ilva, Ast, Alcoa, Irisbus etc) come potremmo agire per cambiare il sistema? La leva monetaria in tal senso non è affatto irrilevante.
Per queste ragioni occorre disdettare i trattati europei sottoscritti dal 1992 a oggi (da Maastricht al Mes), abrogare la separazione tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro introdotta nel 1981, ripudiare un debito pubblico impagabile, rinazionalizzare le banche e le aziende strategiche.
Intorno a questi obiettivi è possibile e credibile costruire un movimento popolare che dia alla rottura con l’Unione Europea un segno progressista, anticapitalista e internazionalista. I nostri alleati naturali sono i movimenti popolari analoghi e i lavoratori di Francia, Spagna, Grecia, Portogallo.
E’ francamente incomprensibile questa paura della parola “rottura”. Se l’Unione Europea è un apparato imperialista, diventa un dovere degli internazionalisti indebolire e rompere la catena imperialista a cominciare dai suoi anelli più deboli. In questo senso abbiamo valutato positivamente l’Oxi in Grecia, il referendum indipendentista in Catalogna, la stessa Brexit in Gran Bretagna. Anche i risultati del referendum controcostituzionale in Italia hanno rivelato la profonda asimmetria politica e sociale del nostro paese, ormai polarizzato tra un ristretto nucleo nel nord che si va integrando con il cuore dell’Unione Europea e il resto del paese che viene lasciato andare in malora, “meridionalizzato”, reso subalterno e funzionale all’accumulazione nel nucleo integrato nella Ue. Questa asimmetria va volta a favore di chi lavora per la rottura e non per l’integrazione subalterna al nucleo centrale dell’Unione Europea.
Questa Unione Europea liberatasi dall’ostruzionismo britannico e con il direttorio franco-tedesco, ha inoltre rotto i freni inibitori anche dal punto di vista militare, e sta diventando un serio pericolo per i popoli dell’Africa, del Medio Oriente e per alcuni aspetti anche dell’America Latina.
Rompere con l’Unione Europea è una prospettiva coerente per l’internazionalismo di classe, altro che sovranismo.
- intervento alla giornata di discussione su “Rottura delll’Unione Europea e sovranità economica” organizzata da Eurostop il 3 febbraio